Consegnare la propria interiorità a chi legge, con la speranza o la semplice pretesa che questi trovi il coraggio di confessarsi un po’ simile a noi; permettere al linguaggio non solo di dire qualche cosa, ma di dire se stesso, di mostrarsi in quanto tale, come la dimora impossibile da dire in cui ogni cosa viene detta, e in cui noi tutti in fin dei conti erriamo. È un atto di coraggio e, insieme, di profonda responsabilità. La poetica di Carlo Crosato si incarica di questa responsabilità, senza mai abbandonare il dubbio di esserne davvero all’altezza; la sua poesia è un discorso su quanto di più immenso esista, su distanze cosmiche, su pianeti e costellazioni, ma anche sull’infinitesimale atomico. A guidarla è l’ambizione di abbracciare l’intero universo con un solo sguardo, di ricapitolarlo con una sola formula, di attraversarlo con un solo passo; ma anche la consapevolezza che, una volta raggiunte queste altezze vertiginose, tornerà a premere, urgente, la domanda di salvezza, di cura di ciò che è più prossimo, di ciò che è più quotidiano, di quel che la formula matematica definitiva non può di certo salvare.
L’autodistruzione è un compito che va perseguito
con la massima perizia di dettagli
con costanza e coraggio senza lesinare energie.
Non è gesto violento gratuito
ma sommessa richiesta di ospitalità
agli spigoli di mondo in cui nessuno più guarda
per far proprio il loro anonimato. Disseminarsi
fino a diventare irriconoscibili
scialare pezzi di sé ovunque si riconosca
l’incastro da millenni disegnato per accoglierli
perdere identità assimilando brandelli di universo.
Non chiedere più cosa resterà di sé:
divenire resto
inscindibile intransitabile
su cui nessuno più avrà da decidere. Errare
non avendo che da accettare l’errore.
*
Piove e io non ti riservo più che
la generosità senza rinuncia
di chi non manca di nulla
non ti dedico più che la carità distratta
di chi allontana l’ineleganza di una mano tesa
metto da parte per te ricordi di seconda mano
e favole fruste logorate dall’uso
l’abuso di avverbi e superlativi.
Stillerò giusto qualche goccia salata
per avvicinarti la mia compassione
o aliterò sul palmo che ti appoggio sulla spalla
se scongiuri la consolazione
fino al giorno in cui apprenderai
che io sono la domanda
e non più la risposta.
*
Stesa in volo a trenta centimetri dal soffitto
nel paradosso logico che rende adiacenti
il volto e i piedi al confondersi delle coscienze
allungando le braccia sostiene tutto il peso
dei molti piani in cui brulica incantata l’intera civiltà.
Lo sforzo disumano dall’effetto trascurabile
la schiaccerebbe senza il conforto del rigore
con cui il dinamometro assicurato da Dio
agli strati più rarefatti dell’atmosfera
le restituisce la gratitudine sottoforma di una
meticolosa elargizione ripartita delle forze.