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Stagioni

Autrice: Agnese Fabbri
Prefazione: Giuseppe Bellosi
Collana: Interno Versi
ISBN: 979-12-80138-19-4
Data di pubblicazione: 19 settembre 2022
Pagine: 104
Formato: 13×19 cm

12,35

Product ID: 7663 Categoria:
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Le poesie di questa prima raccolta di Agnese Fabbri sono scritte in dialetto romagnolo, ad eccezione del primo componimento di ogni capitolo che è in italiano. Le stagioni descritte si manifestano in tempi e luoghi intimi, nei quali la voce narrante via via si mostra. Al tempo stesso, il lettore troverà sullo sfondo un mondo e un contesto che in quella lingua avevano, fino a tempi non remotissimi, il loro principale veicolo di comunicazione. Il livello più immediato è quello di una storia e memoria personale; ma in controluce, benché le poesie siano volte principalmente all’indagine dell’interiorità, l’uso del romagnolo, col suo andamento colloquiale, allude a una dimensione più ampia e in certa misura collettiva. Come descrive Giuseppe Bellosi nella prefazione: «Il dialetto diventa così la lingua della voce narrante di queste poesie, che può essere identificata solo in parte con l’autrice, ed è soprattutto lingua delle “morte stagioni”, di chi è scomparso».

 

Mi ricordavo,
infine, della pioggia che era scesa,
delle piante salvate dall’inverno.
Le case che si aprivano e il ritorno,
lento, dei fantasmi. Di quando tutti,
ogni giorno, ci sediamo a tavola
e proviamo con forza a ritrovare
le cose perse del mattino.

 

*

 

Caminê

Infèna ch’u m’fa mêl al gâmb,
infèna ch’a j ò al ẓnöc infiamêdi,
infèna a lè e’ ’riva e’ capì.
Dop u s’stà zet o chi ch’è bon e’ scor in dialèt.
Dentr al ciṣ d’muntâgna,
in do ch’u n’i va piò anson,
a j ariv di dè,
da par me.
U j è mi nöna,
e la nöna d’mi nöna,
e toti al dön ch’va in ciṣa,
cun e’ fazulet int la tësta,
e’ ruṣêri int al mân,
e la gvëra par d’dri.
A pèi una candéla ch’l’amôrta e’ fugh
e la parèẓa i pèn int j arméri.
Cvânt ch’e’ zuzéd
l’è sëmpar al dò de’ docmaẓdè.
La ẓent j à ẓa magnê.
Int e’ cafè,
int al piaz zneni,
i ciacara piân.
E’ sól e’ scor cun al ca,
al gventa lònghi e avérti.

 

Camminare

Finché non mi fanno male le gambe,
finché non ho le ginocchia in fiamme,
fino a lì arriva la mia comprensione.
Dopo si sta zitti o chi riesce parla in dialetto.
Nelle chiese di montagna,
dove non va più nessuno,
ci arrivo dei giorni,
da sola.
C’è mia nonna,
e la nonna di mia nonna,
e tutte le donne che vanno in chiesa,
con il fazzoletto in testa,
il rosario in mano,
e la guerra alle spalle.
Accendo una candela che spegne il fuoco
e pareggia i panni negli armadi.
Quando succede
sono sempre le due del pomeriggio.
La gente ha già mangiato.
Nel bar,
nelle piazze piccole,
chiacchierano piano.
Il sole parla con le case,
diventano lunghe e aperte.

 

*

 

Fantéṣum

Tot al matèn, coma ch’arves l’os,
e a tëch a spazê e’ curtil pî d’foi,
a i vegh incóra ch’i m’gvêrda coma un cân,
coma un zöp.

U n’conta briṣa
spazê al tòmbi,
o giudês la pânza cun de’ pân.
Par cvânt ch’a i dëga
i dà fura nenca coma al piânt
ch’al bota
nench s’al pê môrti.

I dà fura pr i cavel,
cun piò ch’i s’aṣlonga, cun piò i fa mêl.
Dal vôlt a m’strëch d’avéi atóran.
E pu a m’degh che cvi ch’i n’n’à l’è incóra peẓ.
I n’à ’nson
da fê do ciàcar
cvânt ch’j é da par ló.

 

Fantasmi

Tutte le mattine, quando apro la porta,
e comincio a spazzare il cortile pieno di foglie,
li vedo ancora che mi guardano come un cane,
come uno zoppo.

Non conta
spazzare le tombe,
o tapparsi la pancia con il pane.
Per quanto ci provi
ricrescono come le piante
che germogliano
anche se mi sembrano morte.

Escono dai capelli,
e più si allungano, più fa male.
Delle volte mi stanco di averli intorno.
E poi mi dico che chi non ne ha sta peggio.
Non hanno nessuno
a cui parlare
quando sono soli.

 

*

 

Mi mê

La matèna prëst,
cvânt ch’l’é incóra bur,
la s’met in ṣdé cun al gâmb a spinduclon.
Da d’dri, la pê una tabaca d’cvèng ën. Sól
ch’la n’diṣ gnît, la n’ciacara piò cun anson,
la gvêrda fura intânt ch’u s’fa dè.
Sól dop un töch, dop ch’aven tôlt e’ cafè,
la s’avèia, la pê cvéṣi cuntenta.
A fasen cont d’gnît,
insèna ch’a n’sen piò sól nó do,
a sen zènt,
e pu a s’pirden, e a cminzen nenca.

 

Mia madre

La mattina presto,
quando è ancora buio,
si mette a sedere con le gambe penzoloni.
Da dietro, sembra una ragazza di quindici anni. Ma
non dice niente, non parla più con nessuno,
guarda fuori finché si fa giorno.
Solo dopo un po’, dopo che abbiamo preso il caffè,
se ne va, sembra quasi contenta.
Facciamo finta di niente,
finché non siamo più solo in due,
siamo cento,
e poi ci perdiamo, e ricominciamo di nuovo.

Nota biografica

Agnese Fabbri è nata nel 1982 e vive a Villanova di Bagnacavallo (RA). Lavora come insegnante e collabora con le principali case editrici italiane occupandosi soprattutto di letteratura per ragazzi. "Stagioni" è la sua prima pubblicazione.