«Mi piace l’imitazione, non la copia, e un’imitazione non servile, nella quale splenda l’ingegno dell’imitatore, non la sua cecità…». Così scrive Petrarca in una delle Familiari, e con la medesima volontà Francesco Dalessandro sottoscriverebbe tali parole perché spiegano bene la ragione delle poesie di questo libro, che, come chiarisce egli stesso nella Postilla al testo, «sono nate per un’occasione una ricorrenza un compleanno, o per divertimento», appena precisando che «occasioni e divertimento sono diventati subito il pungolo e l’assillo, oltre che il piacere (…), dell’impegno che le ha lentamente affinate, definite». Se in vari casi si tratta di responsabile, mai indebita appropriazione di testi altrui, all’impresa è intrinseco il gusto della riscrittura e del dare nuova significanza a qualcosa di pre-esistente, com’era già accaduto in Aprile degli anni, il libro del 2010 del quale questo «è conseguenza e seguito ideale». Un’operazione, osserva Massimo Morasso nella sua nota, niente affatto gratuita, che, anzi, risale «sotto mentite spoglie alle fonti sorgive della parola» eludendo «il biografismo, e ogni voluttà confessionale, dicendo però tanto del vivo che sta nella (…) vita» del poeta.
Licenza
a Lydia Alfonsi,
indimenticabile “Pisana”, estate 1969
Alla musica dei binari,
misteriosa cadenza ora veloce
ora lenta, si accorda la voce.
Parliamo di cose banali
dell’afa dei disagi
del frastuono sul treno
affollato del mio viaggio
a casa in licenza.
L’uniforme spiegazzata
ti fa sorridere. Senza
vergogna sorrido sereno
anch’io: «Sono dimagrito
troppo» arrossendo. E nata
fra noi la confidenza:
«A dodici anni ero innamorato
della Pisana» confesso
imbarazzato «come Carlino
al castello di Fratta, da bambino».
Lui per tutta la vita fu fedele
a quell’amore al crudele
capriccio e all’aspra bellezza
che l’aveva imprigionato.
Io resto innamorato
di te anche ora che viva
come allora dallo schermo
sorridi e mi guardi
distratta forse con tenerezza.
Dal corridoio più tardi
ti osservo che sciogli
i capelli che assorta li lisci
fra le dita che ti raccogli
e in silenzio col viso posato
sulla mano ti assopisci
nel sonno leggero di un minuto.
O dietro le palpebre chiuse
insegui il fantasma perduto
del tempo lontano?
il volto di chi amandoti s’illuse
sull’amore e la vita, Pisana,
sul tempo che tutto risana?
*
Finale
Ora che la gioventù non è più mia
ora che non ne sento più il peso
posso scrivere poesie leggere
dirne i versi senza vergogna
ora che l’estate se n’è andata
con la luna e le foglie degli anni
sono ricami di gelo sul viale
ora il mio desiderio senza fine
canterà il canto di quegli anni persi
*
Sii naturale
(da Robert Creeley)
A Laura, per i suoi nove anni
Sii naturale come sai
essere, figlia mia.
Fa’ che il mio nome
sia nella carne che ti diedi
quando amai tua madre;
sii naturale e saggia, come lei
è la donna ch’è in te,
educata da sensuale
moderazione. Ma non
più saggia, non più naturale
dei suoi capelli, degli occhi
che t’ha dato.
Nessuna donna mai
sarà come sarai.
Ricordaci, tua madre
e me; ricorda come sei venuta,
come t’abbiamo attesa.
Sii naturale e saggia,
figlia mia, come sai.
Lascia a me, tuo padre,
la retorica; e lascia che sia io
a parlarne e ti risparmi
quella sciocca ostentazione.
Non smettere di amare,
figlia, non stancarti
di cercare l’amore in ogni piccola
cosa di questo mondo.
Lascia a me, tuo padre,
la dimenticanza;
a me cui l’amore sembra ora
una lontana ricompensa
per un merito dimenticato.
Figlia, sii naturale
e saggia, come sai,
come voglio che tu sia.
2 giugno 1985